29/4/2020
Nel corso degli ultimi anni, i numerosi
talk show televisivi e radiofonici hanno trattato, quasi quotidianamente, l’argomento migranti, richiedenti asilo o, in modo più generico, gli stranieri. Ognuno, in base al ruolo svolto o all’indirizzo politico di appartenenza, ci ha mostrato gruppi di persone disperate in fuga da Paesi dilaniati da guerre interne, stipati su barconi a largo delle nostre coste o, in alternativa, popoli che invadono il nostro Paese e dai quali siamo tenuti a difenderci per evitare l’insorgenza di pericoli sanitari e di ordine pubblico. Poi, con l’arrivo dell’emergenza COVID-19, i gruppi etnici che invadevano le nostre strade o che vivevano stipati in campi profughi, improvvisamente, sono diventati invisibili.
Come vivono questa emergenza i rifugiati e i migranti? Quali pericoli stanno affrontando?L'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), indicando l’infezione da SARS-CoV-2 come una pandemia che interessa ben 146 paesi e territori, con una
guida ad interim specifica per l'Europa richiama i singoli Stati a porre maggiore attenzione ai gruppi di popolazione particolarmente vulnerabili a causa delle condizioni in cui vivono. Fra questi, i
rifugiati e i
migranti sono
potenzialmente a maggior rischio di contrarre malattie, tra cui COVID-19,
perché vivono in contesti sovraffollati,
con scarse condizioni igienico-sanitarie (carenza di acqua e sapone),
carenza di farmaci e di accesso alle strutture sanitarie. Pertanto, le misure di base attivate in ambito sanitario, come il distanziamento sociale, la corretta igiene delle mani e l'autoisolamento, risultano difficilmente attuabili all’interno di centri dei accoglienza o nei campi profughi. A questo dobbiamo aggiungere che lo stato di emergenza e il
lockdown ha notevolmente inficiato i servizi comunemente svolti, in questi contesti, da parte dei volontari appartenenti alle Organizzazioni non governative.
Proprio in difesa di quest’ultimi, il British Medical Journal (BMJ) ha recentemente pubblicato l’appello rivolto alle autorità internazionali da parte dei medici che forniscono assistenza sanitaria presso uno dei più grandi campi profughi d'Europa. L'associazione benefica britannica Kitrinos Healthcare, che gestisce una clinica medica sull'isola di Lesbo, in Grecia, ha infatti lanciato l’allarme per migliaia di persone a rischio nel campo profughi di Moria, in cui non è possibile l’auto-isolamento, l’isolamento e il distanziamento sociale essendo una residenza prevista per 3.000 persone ma occupata da oltre 20.000. Inoltre, l’unico ospedale dell'isola ha solo sei posti in terapia intensiva.
[1,2]Nonostante l’evidente rischio di contagio, i
dati pubblicati su specifici gruppi di popolazione sono molto scarsi.
Perché abbiamo pochi dati sui cittadini dei paesi a forte pressione migratoria?Cercando di rispondere a questa domanda, abbiamo provato a capire quali sono le ipotesi principali che alcuni studiosi stanno discutendo circa la disomogeneità, in termini di diffusione dell’infezione, osservata in alcuni Paesi. Ipotesi non ancora validate.
Se escludiamo la sottonotifica e il basso numero di test eseguiti in alcuni Paesi, le principali teorie ai quali gli studiosi fanno riferimento, basano le proprie fondamenta su aspetti riferiti alla giovane età di queste popolazioni, ad alcuni fattori genetici che caratterizzano le diverse etnie, all’effetto protettivo assolto da parte di alcune vaccinazioni e al clima.
[3] E’ noto che l’
infezione da virus SARS-CoV-2 interessa maggiormente la popolazione di età più avanzata sia in termini di letalità che di contagiosità
[4]. A questo proposito, se consideriamo che nel 2019 il numero di persone di età pari o superiore a 65 anni
[5] in Europa e Nord America era di 200,9 milioni (il 18% del popolazione) mentre in Paesi dell’Africa sub-sahariana (SSA) la popolazione ha un'età media di 19,7 anni e solo 31,9 milioni di persone (il 3% della popolazione) è di età pari o superiore a 65 anni, potremmo in parte spiegare la bassa diffusione in questi territori.
Per quanto riguarda i
fattori genetici, una delle ipotesi riguarda invece la predisposizione genetica degli afroamericani a livelli più alti di attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS)
[6]. Dato che il recettore principale del virus SARS-CoV-2 è l’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE2) che regola la pressione sanguigna e si esprime nelle cellule epiteliali del polmone e in altri organi, una diversa attività del RAAS potrebbe conferire una diversa resistenza all’infezione virale.
Anche il
clima può essere un possibile fattore attenuante. Il coronavirus umano, come SARS-CoV e SARS-CoV-2, è un virus a RNA appartenente alla famiglia dei
Coronaviridae caratterizzati dalla stagionalità invernale
[3] (ad oggi non ci sono studi epidemiologici ambientali sulla circolazione del virus in climi tropicali).
Un’altra ipotesi riguarda il
possibile effetto protettivo svolto dalla vaccinazione antitubercolare (
Bacillus Calmette-Guérin – BCG) nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2. Questa teoria si basa sul fatto che numerosi vaccini, inclusa la vaccinazione con BCG, hanno dimostrato di produrre effetti immunitari positivi "eterologhi" o non specifici che portano a una migliore risposta contro altri agenti patogeni non micobatterici. Questo fenomeno è causato da cambiamenti metabolici ed epigenetici che portano alla promozione di regioni genetiche che codificano citochine pro-infiammatorie. Gli studiosi, quindi, ipotizzano che la vaccinazione BCG possa svolge un ruolo importante nell'immunità antivirale. Sapendo che le stime dell’OMS (2017) parlano di una copertura vaccinale con BCG del 99% in Algeria, del 97% in Eritrea e Sudan, del 92% in Costa D’Avorio e Mali e del 91% in Guinea e Tunisia
[7], alcuni studi cercano di valutare se la BCG può conferire una protezione duratura contro l'attuale ceppo di coronavirus. Anche in questo caso sono necessari studi randomizzati controllati che utilizzano BCG per determinare la velocità con cui si sviluppa una risposta immunitaria che protegge da COVID-19
[8].
Quanti sono gli stranieri positivi al virus SARS-CoV-2 in Toscana?In
Italia, dove al 1 gennaio 2019 la popolazione straniera residente rappresentava 8,5% del totale dei residenti ed è presente un sistema sanitario di tipo “universalistico”, le notizie “non ufficiali” provenienti dalle strutture di ricovero rilevano una
bassa percentuale di pazienti stranieri,
in particolare provenienti da Paesi dell’Africa sub-sahariana.
Dato che la
Toscana rappresenta ancora un territorio in grado di attrarre la stabilizzazione di cittadini stranieri che, alla stessa data del 1 gennaio 2019, rappresentavano l’11,2% del totale dei residenti, riteniamo importante analizzare il loro coinvolgimento nell’infezione da SARS-CoV-2.
Complessivamente, alla data del 27 aprile 2020, sulla
piattaforma dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), sono state registrate 8.017 infezioni da SARS-CoV–2 sulla base dei dati raccolti dai servizi di Igiene e Sanità Pubblica dei Dipartimenti di Prevenzione in Toscana. I dati vengono aggiornati quotidianamente, ma alcune informazioni richiedono qualche giorno per il loro inserimento, per tale motivo non concordano completamente con quanto riportato attraverso il flusso informativo della Protezione Civile e del Ministero della Salute, disponibile al link:
https://github.com/pcm-dpc/COVID-19.
Al 26 aprile su 8.017 casi considerati (87,6% dei casi totali rilevati da Regione Toscana a quella data), 6.781 risultano a carico di cittadini italiani (84,6%), 347 interessano
cittadini stranieri (
4,3%) mentre per 889 (11,1%) la cittadinanza risulta mancante. In linea con quanto osservato fra gli italiani, il rapporto di genere maschio/femmina vede le donne più coinvolte dall’infezione ma, a differenza di queste ultime, le straniere risultano in percentuale maggiore (straniere: 60,5%; italiane: 53,1%).
I
paesi di provenienza riflettono le etnie che maggiormente risiedono sul nostro territorio, ad eccezione di quella cinese. I dati, infatti, mostrano che ben 64 nazionalità presenti nella casistica toscana: il 18,4% dei casi SARS-CoV-2 positivi provengono dall’Albania, il 15,3% dalla Romania, il 14,1% dal Perù, il 5,5% dalle Filippine e il 3,7% dal Brasile (
Figura 1) India e Marocco. Solo 11 i casi che sono riconducibili a Paesi con un sistema economico sviluppato. Fra i cittadini cinesi (che ricordiamo rappresentano il 13% dei residenti stranieri in Toscana) è stato registrato soltanto 1 caso. Quest’ultima informazione risulta oltremodo interessante alla luce del fatto che la città di Prato ospita una delle più grandi comunità cinesi d’Europa e che, dato l’esordio dell’infezione, era destinata a diventare un epicentro di Covid-19.
Figura 1. Distribuzione % dei casi SARS-CoV-2 per Paese di origine – Toscana 27.04.2020 – ARS su dati ISS
A questo proposito, un interessante
articolo pubblicato sul sito Vestoj approfondisce questo tema mettendo in risalto il forte contrasto esistente fra i pensieri populisti o xenofobi che dilagavano all’inizio della pandemia e il comportamento protettivo messo in atto da parte dell’intera comunità che, spontaneamente, ha adottato misure d’isolamento sociale proteggendo, non soltanto se stessa, ma l’intera popolazione autoctona.
Torniamo ai dati registrati sulla piattaforma ISS. Venendo alla
composizione socio-anagrafica della popolazione straniera positiva per COVID, l’età media dei SARS-CoV-2 positivi è di 45,9 anni (italiani: 60,9 anni) con soltanto il 4,2% delle infezioni registrate fra gli over70 (italiani: 36% hanno più di 70 anni). Fra le possibili spiegazioni, la giovane età della popolazione straniera residente che, in Toscana ha un’età media di 34,6 anni, costituisce una delle ipotesi più accreditate (
Figura 2). Trattandosi di persone giovani, non stupisce nemmeno la presenza di un minor numero di comorbilità (in particolare patologie croniche come il diabete, l’ipertensione, la broncopneupatia cronica ostruttiva e l’insufficienza renale), che interessano soltanto il 18,2% degli stranieri (italiani: 32,4%).
Figura 2. Distribuzione % dei casi SARS-CoV-2 per classe di età – confronto italiani/stranieri – Toscana 27.04.2020 – ARS su dati ISSVenendo alle conseguenze più gravi di salute, al 26 aprile 2020 sono 6 decessi per infezione da SARS-CoV-2 nella popolazione straniera. Rispetto agli italiani, l’
indice di letalità, ovvero il numero di decessi sul numero di casi, è
molto più basso fra gli stranieri (1,7% vs. 8%) con valori che, in linea con l’andamento italiano, risultano più elevati nel genere maschile (maschi:2,9%; femmine:1%). L’età mediana delle persone decedute è 77 anni (italiani: 83 anni). Per quanto riguarda le comorbilità, soltanto 2 delle persone decedute presentavano almeno una patologia cronica concomitante (stranieri: 33,3%; italiani: 68,3%). In questo caso la differenza osservata fra le due popolazioni necessita di ulteriori approfondimenti che non siamo in grado di effettuare con i dati a nostra disposizione.
Analizzando il tempo trascorso tra la data d’insorgenza dei sintomi e la data di esecuzione del prelievo o del ricovero, possiamo riconfermare che il
Sistema sanitario regionale, in accordo con la sua impostazione universalistica, ha un approccio improntato all’
equità di trattamento su tutta la popolazione. Nel primo caso la mediana è di 4 giorni mentre fra l’esordio dei sintomi e il ricovero è di 5 giorni (sovrapponibile al dato italiano).
Complessivamente, gli
stranieri positivi in condizioni meno gravi, ovvero gli asintomatici, i pauci-sintomatici e i pazienti con sintomatologia lieve, rappresentano l’
84,7% del totale (italiani:78%), il 14,1% sono coloro che si trovano in uno stato clinico severo (italiani: 18,5%) mentre l’1,2% è in condizioni critiche (italiani: 3,5%). La giovane età di questa popolazione e le migliori condizioni di salute, spiegano anche il
minor ricorso al ricovero ospedaliero sia in reparti di degenza ordinaria (stranieri:15,3%; italiani:24%) che di terapia Intensiva (stranieri: 1,7%; italiani:2,1%).
L’ultima informazione che presentiamo, riguarda il luogo in cui è avvenuta l’esposizione. Fra gli
stranieri, 81 persone hanno
contratto l’infezione sul luogo di lavoro e, di queste, 57 risultano operatori sanitari che operano prevalentemente all’interno di Residenze sanitarie per anziani (n=46). Dato che sono soprattutto le donne provenienti dai paesi dell’Est Europa e Sud America (Perù) a svolgere professioni di natura assistenziale (in prevalenza agli anziani), l’informazione riguardante il luogo di contagio spiega, in parte, il maggior coinvolgimento, in particolare fra gli stranieri, del genere femminile provenienti da questi Paesi.
Conclusioni
Abbiamo iniziato ponendoci una domanda: come stanno vivendo l’emergenza Covid-19 i cittadini stranieri?. Dalla letteratura presa in esame appare evidente che non siamo in grado di dare una risposta esaustiva. Tuttavia, il rischio che le condizioni abitative e/o lavorative rappresentano per questi cittadini costituiscono un tema sul quale è necessario riportare la nostra attenzione.
I dati riferiti alla nostra regione, sembrano confermare che la loro giovane età e la mancanza di comorbilità rappresentano fattori protettivi nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2 anche se, lavorando in ambienti ad alto rischio, come le RSA, i casi di contagio risultano elevati.
Lo scarso coinvolgimento di cittadini provenienti da Paesi a Forte pressione migratoria, meno coinvolti in attività di carattere assistenziale, non deve esimerci dalla necessità di prestare attenzione a gruppi abitativi in cui, l’elevata numerosità dei conviventi, i diversi aspetti culturali e le difficoltà nella comprensione linguistica, possono rappresentare fattori in grado favorire la diffusione virale.
Caterina Silvestri, Francesco Innocenti - Agenzia regionale di sanità della ToscanaCristina Stasi - Centro Interdipartimentale di Epatologia CRIA-MASVE, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, AOU Careggi